Quando a metà anni settanta ho deciso di fare il cantastorie
e di lavorare in strada ero mosso dall'esigenza di lavorare a diretto contatto
con il pubblico, fuori dalle istituzioni teatrali, e alla ricerca di una
cultura viva e popolare. Cercavo le radici del fare teatro. Così
come fare animazione teatrale nelle scuole si basava sull’intenzione di
trasmettere strumenti di espressione ed emancipazione culturale a più
gente possibile.
Così ho lavorato in strada con Sandro Berti, con Bustric, con
Els Commediants, con Leo Bassì e con la Banda Osiris. Ma dopo un
po' mi sono accorto che gli strumenti e gli argomenti della cultura popolare
(i cantastorie, i saltimbanchi le fiabe e i burattini) erano utili a chi
li "usava" per sopravvivere in una "zona franca" che gli permetteva di
vivere la loro differenza dai modelli culturali dominanti ma non di incontrare
una cultura popolare vivente e nemmeno di fare emancipazione culturale:
spesso (ma non sempre) si rischiava un recupero nostalgico e conservativo
fino ad arrivare alla proposizione di vuoti cliscè stilistici.
Mi sono reso conto (all'inizio degli anni 80) che la cultura popolare
(specialmente quella della mia generazione) si stava esprimendo attraverso
i mezzi di comunicazione di massa: la televisione, il cinema, i fumetti
e l’immaginario fantascientifico legato alle tecnologie.
Così ho iniziato ad occuparmi di video (in maniera alternativa
da quella imposta dal mercato di massa) e ho provato a portare in strada
l'immaginario tecnologico attraverso tre diversi progetti: "Lo Zampognaro
Galattico", l'azione di strada "Danger" con la Banda Roselle di Bologna
e poi la "Banda Magnaetica".
Per me non e' mai stato un problema conciliare alcune forme e temi della
tradizione popolare con le moderne tecnologie perché entrambi sono
"strumenti" per comprendere e comunicare archetipi che pur cambiando continuamente
aspetto rimangono fedeli a se stessi.
A me non interessa fare cose di avanguardia ma vivere e realizzare
"oper'azioni" nel presente, in questo presente caratterizzato da mutazioni
sempre più veloci che non distruggono le tecniche e le forme della
comunicazione passata ma piuttosto ne suggeriscono una loro continua ridefinizione
per nuove modalità d’uso.
Il futuro ormai è il “presente” grazie all’accellerazione della
comunicazione informatica (anche per chi non sa nemmeno come si accende
un computer). L’avanzamento non è più nel tempo ma nello
spazio: ormai è possibile far convivere in spazi adiacenti
(e dai confini sfumati) culture e modalità espressive differenti
senza dover rincorrere “la novità” come valore positivo assoluto
valido per tutti. La “novità” è semplicemente un’altra possibilità,
un altro spazio che si apre, che certamente influenza gli altri spazi dai
quali però è essa stessa influenzata; in questo contesto
qualsiasi pretesa di avanguardia (anche tecnologica) è ridicola.
Quello che conta oggi è essere coscienti del prorio stato di mutazione
costante e dei contesti economici-culturali-esistenziali in cui ci troviamo
ad agire.
Il lavoro di strada mi è stato utilissimo per imparare a improvvisare continuamente, ad esprimermi "senza rete", facendo continuamente attenzione a "quello che passava" in modo da modificare l'andamento della performance seguendo l'umore del pubblico e le diverse condizioni architettoniche: è stato un esercizio alla mutazione che mi è sempre stato utile quando mi sono rapportato all'uso delle tecnologie elettroniche.
Alla fine degli anni '80 ho inventato (forse per caso) il Tele-Racconto mettendo insieme l'esperienza di attore-narratore e l'uso creativo della videocamera. Dall'89 ad oggi sono stati realizzati 13 diversi Tele-racconti, con altrettante storie e varianti tecniche. Adesso si sta realizzando il 14° Tele-racconto all'interno di uno spettacolo teatrale della Piccionaia di Vicenza tratto da un libro di Sepulveda.
Da circa tre anni ho iniziato ad animare un "personaggio virtuale",
una specie di burattino elettronico generato da un computer e animato attraverso
un guanto fornito di sensori (cyberglove). L'ideazione del software è
di Stefano Roveda di Pigreco. Gli spettatori vedono il personaggio su uno
schermo e sono a loro volta visti da me attraverso una videocamera, in
questo modo posso far dialogare il personaggio con i passanti. Ogni performance
dura da una a sette ore di improvvisazione. Anche in questo caso il successo
dell’azione e dovuto alla fusione dell'esperienza di strada con il disincanto
della conoscenza tecnologica.
per ora è tutto
Saluti